Tempo di bilanci: 1) CHE FINE HA FATTO IL MERCATO A CHILOMETRO ZERO?
10-01-2024 16:16 - Le inchieste
Abbiamo atteso più di due anni per valutare l'impatto della nuova Amministrazione pattese su alcuni temi importanti per gli Invisibili del nostro territorio: ora ci sembra giunto il momento di tirare alcuni bilanci, nella speranza di sollecitare possibili soluzioni.
Partiamo da un tema su cui la nostra Associazione è intervenuta attivamente alcuni anni fa, con analisi ed iniziative concrete (come la gestione diretta del Mercato delle Erbe) e cioè la commercializzazione a chilometro zero dei prodotti agricoli da parte dei piccoli coltivatori del nostro territorio.
Premettiamo che l'Attuale amministrazione ha avuto il merito di riuscire a realizzare in pochi mesi ciò di cui quella passata aveva discusso vanamente per 10 anni: il trasferimento dalla contrada Case Nuove al centro città del Mercato Settimanale. Dobbiamo ammettere di ignorare come siano stati superati concretamente in così breve tempo ostacoli che apparivano prima insormontabili, come il subappalto irregolare di molte licenze, il reperimento idoneo di parcheggi e bagni pubblici e l'ostilità dei commercianti cittadini (che ora hanno addirittura sollecitato il ritorno in centro delle bancarelle). Il merito va senza dubbio comunque ad un paio di nuovi Assessori ed al Sindaco Bonsignore, che ha trattenuto per sé la delega al Commercio.
Ma contemporaneamente a questo felice trasferimento era stata pubblicizzata la creazione all'interno del Mercato settimanale di un settore di Mercato a chilometro zero dei produttori locali, attuato finora nella nostra città solo dal nostro “Paese Invisibile” (per 5 anni, prima in Piazzetta Greco e poi in Piazza Niosi, la tradizionale “Piazza del Mercato” pattese), dato che un altro mercato di produttori, che si è tenuto in seguito per alcuni mesi in Piazza Sturzo, accoglieva soprattutto produttori da altre zone della Sicilia. Questo nuovo settore si sarebbe dovuto localizzare proprio in Piazza Niosi o in Piazza Sturzo, ma il suo avvio è stato progressivamente rimandato, fino a perdersi nel silenzio. Come mai?
Ci sembra utile sottolineare alcune obiettive difficoltà, che possono aver contribuito a questo cambio di indirizzo, ma è essenziale anche ribadire perché è invece importante per il nostro territorio superarle e realizzare comunque questo tipo di mercato. Dall'analisi particolareggiata che avevamo fatto alcuni anni fa sulla situazione agricola pattese e più in generale della provincia di Messina e della Sicilia (vedi in questo sito le 3 inchieste richiamate qui a fine pagina) emergevano alcuni nodi essenziali della situazione più recente, come la tendenza all'espulsione dalla terra dei piccoli coltivatori, per un progressivo ingrandimento delle proprietà, finalizzato ad ottenere finanziamenti agricoli pubblici, a fronte dell'impossibilità, da parte dei più piccoli, di gestire la Partita-iva e di accedere alle certificazioni di qualità.
Per comprendere meglio tutte le dinamiche che hanno creato questa situazione, vanno incrociati due piani: A)l'evolversi della legislazione italiana ed europea sulla vendita diretta dei prodotti agricoli e B)le statistiche degli ultimi vent'anni sulle forme di proprietà dei terreni agricoli, in particolare in Sicilia ed a Patti.
A) A partire dagli anni '50, mentre l'occupazione agricola diminuiva in Italia per l'avvio dell'industrialismo, fu avviata una legislazione finalizzata teoricamente ad integrare i redditi agricoli con i proventi di una commercializzazione senza intermediari. Per lo più si fa risalire l'attuale legislazione sulla vendita diretta dei propri prodotti da parte dei contadini agli inizi degli anni '60, quando la legge n.59/1963 ha dettato norme sulla “vendita al pubblico in sede stabile dei prodotti agricoli da parte degli agricoltori produttori diretti”: una legge che non è mai stata abrogata, e che va quindi considerata solo aggiornata e modificata dalle numerose norme successive. Questa legge valeva per “i proprietari di terreni da essi direttamente condotti o coltivati, i mezzadri, i fittavoli, i coloni, gli enfiteuti e le loro cooperative o consorzi”. Una realtà presente quindi soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, dove l'agricoltura aveva cercato di restare competitiva assumendo nuove forme organizzative. Al Sud, invece, quelli erano gli anni della grande emigrazione dei contadini verso le realtà industriali del Nord Italia e di tutta Europa, che iniziava, già all'interno delle regioni meridionali, con lo spostamento di braccianti e contadini poveri dalla terra all'edilizia, per alimentare le “grandi opere” della Cassa per il Mezzogiorno e le prime grandi speculazioni nelle città meridionali. A risultare “coltivatori diretti” ed a vendere i propri prodotti, così, restavano di fatto nel Mezzogiorno i proprietari agrari, che univano questa attività alle attività professionali ed alle rendite da “posto statale”, che l'ampliarsi dei servizi pubblici cominciava loro a riservare in posizioni dirigenziali. Hanno beneficiato di queste norme, però, anche quei piccoli proprietari contadini legati alla Coldiretti, che la politica democristiana ha protetto dal dopoguerra fino agli anni '80.
Un punto di svolta di questa legislazione si è avuto non appena si è consumata, a fine secolo, la crisi della Prima Repubblica e delle formazioni sociali che essa rappresentava. Il Decreto Legislativo n.228/2001 ha infatti introdotto due fondamentali novità:
1) il concetto di “imprenditore agricolo”, che mirava a cancellare dalla realtà italiana, relegandola nel museo della storia, la figura del semplice contadino,
2) la possibilità di vendere anche una percentuale di merci agricole comprate da altri produttori, che comportava un regime fiscale quasi commerciale.
Dal 2001 si è aperto così, per questo settore, un mondo di qualifiche scolastiche e parascolastiche, di corsi di formazione e di posizioni professionali inedite, basate sull'assistenza di agronomi, assicuratori, finanziatori, commercialisti e consulenti vari, essenziale per legare l'attività agricola ai mitici flussi di denaro europeo.
Il contadino meridionale, che è ancora (e forse più che negli anni '70) poco scolarizzato, del tutto estraneo al mondo informatico, diffidente per antica esperienza da ogni forma di registrazione fiscale e previdenziale, fiducioso più nei tradizionali metodi secolari di coltivazione e trasformazione che nei dettami scientifici dell'agraria, è rimasto prudentemente fuori da questo mondo di realtà immateriale e finanziaria, di competenze solo formali e di sostanziale improvvisazione e si è rifugiato ancora una volta nell'invisibilità, nell'anonimato, nei canali sotterranei e personali di vendita, sottraendosi ai capricci di una burocrazia ormai del tutto fuori controllo, nella galoppante crisi dello Stato nazionale.
Quanto alle tanto sbandierate “colture biologiche” e senza antiparassitari, bisogna sottolineare come in Italia non siano previsti controlli pubblici su queste colture, ma tutto resti affidato a tecnici privati che, a spese del proprietario, certificano il carattere “biologico” del suo prodotto. È evidente come questi costi siano insostenibili per i coltivatori più poveri e come le certificazioni private non abbiano la trasparenza e l'obiettività necessarie a garantire il consumatore.
B) Quanto alle forme di proprietà agricola, si è registrata al Sud fin dal secondo dopoguerra una polarizzazione tra gli eredi dei grandi latifondi e la tradizionale tendenza alla parcellizzazione dei terreni medio-piccoli, dato che non ha mai trovato spazio qui la Cooperazione (essenziale per competere con la grande proprietà, come nell'agricoltura del Nord), con la conseguenza di un rapido abbandono della terra da parte dei piccolissimi proprietari, che si sono spostati dall'agricoltura al mercato del lavoro edile (spesso nero o sottopagato), lasciando spazio solo ai proprietari più ricchi, capaci di proporre anche coltivazioni costose e certificate e trasformazioni in grande del prodotto (commercializzabile a livello italiano ed estero) e non di rado anche a soggetti mafiosi, interessati ad intercettare i fondi europei per l'agricoltura (come è stato provato dalla magistratura per il Parco dei Nebrodi). Nella provincia di Messina le aziende agricole nel 2010 sono risultate 26.166. Il 98,4% aveva struttura giuridica individuale, il 90,6% un'estensione inferiore ai 10 ettari e ben il 70,12% un'estensione inferiore ai 2 ettari. Quasi tutte risultavano a conduzione diretta del coltivatore. Il calo delle unità agricole era stato, tra il 2000 ed il 2010, del 54,8%, e questo calo aveva riguardato in particolare quelle inferiori ai 10 ettari, mentre anche nella nostra provincia c'era stato un aumento addirittura del 12,2%, della Superficie Agricola Utilizzata (l'aumento percentuale maggiore di tutta la Sicilia), che ha riguardato solo le aziende superiori ai 10 ettari, cresciute anche di numero. A Patti le unità agricole registrate dal Censimento 2010 sono state 513, mentre nello stesso anno solo 111 aziende agricole risultavano registrate alla Camera di Commercio di Messina. E' stato altissimo il calo percentuale del numero delle unità agricole (e ha riguardato anche qui quelle con meno di 10 ettari) e parimenti elevato l'aumento, in numero ed estensione, di quelle superiori ai 10 ettari.
Questo processo di concentrazione, registrato dai censimenti sull'Agricoltura, è stato senza dubbio incoraggiato dalla legislazione sulla vendita diretta dei prodotti (a partire dal D.L. 228/2001) e dalle norme sui finanziamenti europei, ed ha non solo emarginato ed impoverito i piccoli agricoltori, ma anche concentrato le coltivazioni nei terreni pianeggianti e più fertili, lasciando completamente incolti quelli in pendio e più difficili da lavorare (ricordiamo che in Sicilia ben il 70% del territorio è ormai abbandonato e desertificato) . Ha inoltre eliminato la raccolta delle erbe spontanee e ha ridotto la coltivazione della frutta più difficile da trasportare, riducendo la biodiversità e distruggendo un patrimonio tradizionale di sapori. Al contrario, tutte le iniziative che riportano i coltivatori poveri sulla terra, servono a recuperare i terreni a rischio frana, a ridurre gli incendi ed a salvaguardare le diversità e le culture alimentari. Chi pensa di fare un mercatino locale con i proprietari maggiori quindi non ha capito nulla di questi processi economici ed è destinato a fallire, sia perché questi coltivatori non sono interessati al piccolo guadagno del Mercato a chilometro zero, sia perché non si realizzerà la tutela del suolo e della biodiversità.
Questa situazione dualistica vede oggi inoltre, accanto ai tradizionali grandi proprietari, strati della piccola borghesia (ormai espulsa dalla Pubblica Amministrazione, in fase di snellimento burocratico, e dai Servizi, che si riducono progressivamente, e messa a rischio dalla crisi dell'imprenditoria edile) che inscenano un “ritorno alla terra”, alla ricerca della vecchia risorsa dei finanziamenti pubblici (ora europei), non disdegnando il ricorso a manodopera immigrata clandestina (spesso rumena o albanese), mentre dall'altra parte resta uno strato di contadini poveri (che sopravvivono ancora grazie alle pensioni sociali e di anzianità) che pratica forme tradizionali di agricoltura di sussistenza, fuori da ogni quadro legislativo e priva di tutela sanitaria e di lavoro.
Creare sbocchi di commercializzazione locale per i piccoli contadini, anche a costo di inedite interpretazioni del quadro legislativo in materia, appare dunque essenziale per riequilibrare pratiche agricole contraddittorie e per salvaguardare i territori e la condizione personale dei coltivatori più poveri. Non da ultimo, per preservare “sapori e saperi” a beneficio dei consumatori e della memoria collettiva delle comunità.
Partiamo da un tema su cui la nostra Associazione è intervenuta attivamente alcuni anni fa, con analisi ed iniziative concrete (come la gestione diretta del Mercato delle Erbe) e cioè la commercializzazione a chilometro zero dei prodotti agricoli da parte dei piccoli coltivatori del nostro territorio.
Premettiamo che l'Attuale amministrazione ha avuto il merito di riuscire a realizzare in pochi mesi ciò di cui quella passata aveva discusso vanamente per 10 anni: il trasferimento dalla contrada Case Nuove al centro città del Mercato Settimanale. Dobbiamo ammettere di ignorare come siano stati superati concretamente in così breve tempo ostacoli che apparivano prima insormontabili, come il subappalto irregolare di molte licenze, il reperimento idoneo di parcheggi e bagni pubblici e l'ostilità dei commercianti cittadini (che ora hanno addirittura sollecitato il ritorno in centro delle bancarelle). Il merito va senza dubbio comunque ad un paio di nuovi Assessori ed al Sindaco Bonsignore, che ha trattenuto per sé la delega al Commercio.
Ma contemporaneamente a questo felice trasferimento era stata pubblicizzata la creazione all'interno del Mercato settimanale di un settore di Mercato a chilometro zero dei produttori locali, attuato finora nella nostra città solo dal nostro “Paese Invisibile” (per 5 anni, prima in Piazzetta Greco e poi in Piazza Niosi, la tradizionale “Piazza del Mercato” pattese), dato che un altro mercato di produttori, che si è tenuto in seguito per alcuni mesi in Piazza Sturzo, accoglieva soprattutto produttori da altre zone della Sicilia. Questo nuovo settore si sarebbe dovuto localizzare proprio in Piazza Niosi o in Piazza Sturzo, ma il suo avvio è stato progressivamente rimandato, fino a perdersi nel silenzio. Come mai?
Ci sembra utile sottolineare alcune obiettive difficoltà, che possono aver contribuito a questo cambio di indirizzo, ma è essenziale anche ribadire perché è invece importante per il nostro territorio superarle e realizzare comunque questo tipo di mercato. Dall'analisi particolareggiata che avevamo fatto alcuni anni fa sulla situazione agricola pattese e più in generale della provincia di Messina e della Sicilia (vedi in questo sito le 3 inchieste richiamate qui a fine pagina) emergevano alcuni nodi essenziali della situazione più recente, come la tendenza all'espulsione dalla terra dei piccoli coltivatori, per un progressivo ingrandimento delle proprietà, finalizzato ad ottenere finanziamenti agricoli pubblici, a fronte dell'impossibilità, da parte dei più piccoli, di gestire la Partita-iva e di accedere alle certificazioni di qualità.
Per comprendere meglio tutte le dinamiche che hanno creato questa situazione, vanno incrociati due piani: A)l'evolversi della legislazione italiana ed europea sulla vendita diretta dei prodotti agricoli e B)le statistiche degli ultimi vent'anni sulle forme di proprietà dei terreni agricoli, in particolare in Sicilia ed a Patti.
A) A partire dagli anni '50, mentre l'occupazione agricola diminuiva in Italia per l'avvio dell'industrialismo, fu avviata una legislazione finalizzata teoricamente ad integrare i redditi agricoli con i proventi di una commercializzazione senza intermediari. Per lo più si fa risalire l'attuale legislazione sulla vendita diretta dei propri prodotti da parte dei contadini agli inizi degli anni '60, quando la legge n.59/1963 ha dettato norme sulla “vendita al pubblico in sede stabile dei prodotti agricoli da parte degli agricoltori produttori diretti”: una legge che non è mai stata abrogata, e che va quindi considerata solo aggiornata e modificata dalle numerose norme successive. Questa legge valeva per “i proprietari di terreni da essi direttamente condotti o coltivati, i mezzadri, i fittavoli, i coloni, gli enfiteuti e le loro cooperative o consorzi”. Una realtà presente quindi soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, dove l'agricoltura aveva cercato di restare competitiva assumendo nuove forme organizzative. Al Sud, invece, quelli erano gli anni della grande emigrazione dei contadini verso le realtà industriali del Nord Italia e di tutta Europa, che iniziava, già all'interno delle regioni meridionali, con lo spostamento di braccianti e contadini poveri dalla terra all'edilizia, per alimentare le “grandi opere” della Cassa per il Mezzogiorno e le prime grandi speculazioni nelle città meridionali. A risultare “coltivatori diretti” ed a vendere i propri prodotti, così, restavano di fatto nel Mezzogiorno i proprietari agrari, che univano questa attività alle attività professionali ed alle rendite da “posto statale”, che l'ampliarsi dei servizi pubblici cominciava loro a riservare in posizioni dirigenziali. Hanno beneficiato di queste norme, però, anche quei piccoli proprietari contadini legati alla Coldiretti, che la politica democristiana ha protetto dal dopoguerra fino agli anni '80.
Un punto di svolta di questa legislazione si è avuto non appena si è consumata, a fine secolo, la crisi della Prima Repubblica e delle formazioni sociali che essa rappresentava. Il Decreto Legislativo n.228/2001 ha infatti introdotto due fondamentali novità:
1) il concetto di “imprenditore agricolo”, che mirava a cancellare dalla realtà italiana, relegandola nel museo della storia, la figura del semplice contadino,
2) la possibilità di vendere anche una percentuale di merci agricole comprate da altri produttori, che comportava un regime fiscale quasi commerciale.
Dal 2001 si è aperto così, per questo settore, un mondo di qualifiche scolastiche e parascolastiche, di corsi di formazione e di posizioni professionali inedite, basate sull'assistenza di agronomi, assicuratori, finanziatori, commercialisti e consulenti vari, essenziale per legare l'attività agricola ai mitici flussi di denaro europeo.
Il contadino meridionale, che è ancora (e forse più che negli anni '70) poco scolarizzato, del tutto estraneo al mondo informatico, diffidente per antica esperienza da ogni forma di registrazione fiscale e previdenziale, fiducioso più nei tradizionali metodi secolari di coltivazione e trasformazione che nei dettami scientifici dell'agraria, è rimasto prudentemente fuori da questo mondo di realtà immateriale e finanziaria, di competenze solo formali e di sostanziale improvvisazione e si è rifugiato ancora una volta nell'invisibilità, nell'anonimato, nei canali sotterranei e personali di vendita, sottraendosi ai capricci di una burocrazia ormai del tutto fuori controllo, nella galoppante crisi dello Stato nazionale.
Quanto alle tanto sbandierate “colture biologiche” e senza antiparassitari, bisogna sottolineare come in Italia non siano previsti controlli pubblici su queste colture, ma tutto resti affidato a tecnici privati che, a spese del proprietario, certificano il carattere “biologico” del suo prodotto. È evidente come questi costi siano insostenibili per i coltivatori più poveri e come le certificazioni private non abbiano la trasparenza e l'obiettività necessarie a garantire il consumatore.
B) Quanto alle forme di proprietà agricola, si è registrata al Sud fin dal secondo dopoguerra una polarizzazione tra gli eredi dei grandi latifondi e la tradizionale tendenza alla parcellizzazione dei terreni medio-piccoli, dato che non ha mai trovato spazio qui la Cooperazione (essenziale per competere con la grande proprietà, come nell'agricoltura del Nord), con la conseguenza di un rapido abbandono della terra da parte dei piccolissimi proprietari, che si sono spostati dall'agricoltura al mercato del lavoro edile (spesso nero o sottopagato), lasciando spazio solo ai proprietari più ricchi, capaci di proporre anche coltivazioni costose e certificate e trasformazioni in grande del prodotto (commercializzabile a livello italiano ed estero) e non di rado anche a soggetti mafiosi, interessati ad intercettare i fondi europei per l'agricoltura (come è stato provato dalla magistratura per il Parco dei Nebrodi). Nella provincia di Messina le aziende agricole nel 2010 sono risultate 26.166. Il 98,4% aveva struttura giuridica individuale, il 90,6% un'estensione inferiore ai 10 ettari e ben il 70,12% un'estensione inferiore ai 2 ettari. Quasi tutte risultavano a conduzione diretta del coltivatore. Il calo delle unità agricole era stato, tra il 2000 ed il 2010, del 54,8%, e questo calo aveva riguardato in particolare quelle inferiori ai 10 ettari, mentre anche nella nostra provincia c'era stato un aumento addirittura del 12,2%, della Superficie Agricola Utilizzata (l'aumento percentuale maggiore di tutta la Sicilia), che ha riguardato solo le aziende superiori ai 10 ettari, cresciute anche di numero. A Patti le unità agricole registrate dal Censimento 2010 sono state 513, mentre nello stesso anno solo 111 aziende agricole risultavano registrate alla Camera di Commercio di Messina. E' stato altissimo il calo percentuale del numero delle unità agricole (e ha riguardato anche qui quelle con meno di 10 ettari) e parimenti elevato l'aumento, in numero ed estensione, di quelle superiori ai 10 ettari.
Questo processo di concentrazione, registrato dai censimenti sull'Agricoltura, è stato senza dubbio incoraggiato dalla legislazione sulla vendita diretta dei prodotti (a partire dal D.L. 228/2001) e dalle norme sui finanziamenti europei, ed ha non solo emarginato ed impoverito i piccoli agricoltori, ma anche concentrato le coltivazioni nei terreni pianeggianti e più fertili, lasciando completamente incolti quelli in pendio e più difficili da lavorare (ricordiamo che in Sicilia ben il 70% del territorio è ormai abbandonato e desertificato) . Ha inoltre eliminato la raccolta delle erbe spontanee e ha ridotto la coltivazione della frutta più difficile da trasportare, riducendo la biodiversità e distruggendo un patrimonio tradizionale di sapori. Al contrario, tutte le iniziative che riportano i coltivatori poveri sulla terra, servono a recuperare i terreni a rischio frana, a ridurre gli incendi ed a salvaguardare le diversità e le culture alimentari. Chi pensa di fare un mercatino locale con i proprietari maggiori quindi non ha capito nulla di questi processi economici ed è destinato a fallire, sia perché questi coltivatori non sono interessati al piccolo guadagno del Mercato a chilometro zero, sia perché non si realizzerà la tutela del suolo e della biodiversità.
Questa situazione dualistica vede oggi inoltre, accanto ai tradizionali grandi proprietari, strati della piccola borghesia (ormai espulsa dalla Pubblica Amministrazione, in fase di snellimento burocratico, e dai Servizi, che si riducono progressivamente, e messa a rischio dalla crisi dell'imprenditoria edile) che inscenano un “ritorno alla terra”, alla ricerca della vecchia risorsa dei finanziamenti pubblici (ora europei), non disdegnando il ricorso a manodopera immigrata clandestina (spesso rumena o albanese), mentre dall'altra parte resta uno strato di contadini poveri (che sopravvivono ancora grazie alle pensioni sociali e di anzianità) che pratica forme tradizionali di agricoltura di sussistenza, fuori da ogni quadro legislativo e priva di tutela sanitaria e di lavoro.
Creare sbocchi di commercializzazione locale per i piccoli contadini, anche a costo di inedite interpretazioni del quadro legislativo in materia, appare dunque essenziale per riequilibrare pratiche agricole contraddittorie e per salvaguardare i territori e la condizione personale dei coltivatori più poveri. Non da ultimo, per preservare “sapori e saperi” a beneficio dei consumatori e della memoria collettiva delle comunità.
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