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MICHAEL L’INVISIBILE E L’IPOCRISIA DELLA NORMALITÀ

21-05-2020 09:59 - News Generiche
Forse non sapremo mai se, un anno fa, Michael Bruno sia stato ammazzato a Patti, in un triste capannone industriale abbandonato, da chi voleva metterlo a tacere e/o dare un esempio ad altri ragazzi come lui, o se, ad un mese dal compimento dei suoi 17 anni, abbia deciso da sé, come altri (troppi!) pattesi, di mettere la testa in un cappio.
Le indagini sulla sua morte languiscono e i suoi concittadini, con rare eccezioni (prima fra tutte quella lodevolissima del periodico locale “In Cammino”), sono da tempo abituati a cancellare la memoria, sia quella storico-sociale che quella personale, soprattutto se inquietante: meglio annegare in una rassicurante quanto ipocrita “normalità”.
Meglio tenere lontane le domande su una realtà giovanile poco conosciuta, perché offuscata dagli stereotipi della spensieratezza e della goliardia, e pensare a lui come l’eccezione deviante ed alla maggioranza che gli sopravvive come la regola, fondata su una normalità quotidiana, che in realtà è solo consuetudine caratteristica di un certo periodo storico.
La “normalità” italiana di oggi, infatti, a cui ci stiamo affrettando a tornare dopo il periodo di sosta sanitaria forzata, è tale da poco più di quarant'anni, dato che è nata nell'ultimo ventennio del secolo scorso, con l’effimero benessere diffuso del periodo craxiano, la prepotenza e la furbizia dei soldi facili, lo shopping, l’arrivismo rampante dei ceti sociali emergenti, l’elusione delle regole e la corruzione (trionfante oggi in Sicilia persino nell'emergenza Covid) come normali strumenti di potere, il trionfo dell’immagine “alla moda”, il divertimento delle grandi discoteche, il ritmo assordante della disco music, l’aperitivo lanciato dalla “Milano da bere”, che inaugurava la vuota movida giovanile (che oggi si addita moralisticamente a rischio sanitario, ma che svanirebbe facilmente con la chiusura anticipata dei locali) ed il giovanilismo ossessivo degli ultraquarantenni, insieme al consumo diffuso di ogni tipo di “droga”, che, fin dagli anni ’20 americani, non è mai tale per le caratteristiche intrinseche delle sostanze assunte (comuni a tante altre sostanze lecite), quanto per il proibizionismo di facciata, che le crea l’alone della devianza in fondo consentita e ne affida lo spaccio e gli enormi guadagni alla criminalità organizzata.
Quanto di tutto questo ha pesato sulla giovane vita di Michael? Quanto di questa “normalità” da anni ’80 ha condizionato la vita da bar (che costituisce l’unica forma di socializzazione dei giovani pattesi), i raduni nei tanti capannoni abbandonati (che sono ancora lì, sempre più abbandonati, aperti e facili da usare) insieme allo spaccio, che dilagava un anno fa e che, come ha ben spiegato Roberto Saviano, il lockdown dell’epidemia non ha fermato, trasformandolo anzi in una comoda vendita a domicilio?
Quanto ha pesato l’emarginazione scolastica, la logica perversa del “perdente”, la mancanza di una famiglia tradizionale, che al Sud più che altrove è perno della rete di “amicizie”, sistema “furbo” di gestione delle previdenze sociali incrociate e delle agevolazioni economiche, agenzia di collocamento al lavoro, garanzia di inserimento sociale?
Michael l’invisibile ha dovuto affrontare da solo la violenza di questa “normalità anni ‘80”, che tanto ancora condiziona il sistema economico-sociale italiano, ha tentato di essere se stesso in un mondo in cui il conformismo è essenziale al quieto vivere, ha vestito con sfrontatezza i panni del ribelle ed ha pagato con la vita la ricerca di un’identità e di una visibilità diverse da quelle proposte dall'ipocrisia di un mondo “adulto”, ammantato di giovanilismo, ma estraneo ai due elementi essenziali della gioventù: la speranza di cambiamento e la voglia di modificare radicalmente lo stato di cose presenti.



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